Milano: il Fashion System al bivio

By Fabio Orlando Bernardini

Al di là degli aspetti di comunicazione e promozione della possibilità di accorciare i tempi si parla da molto tempo.

Non credo che le collezioni viste a Milano siano tutte facilmente, integralmente e velocemente commercializzabili, indipendentemente dalla velocità con cui si potrebbe fare.

Accorciare i tempi post-sfilata credo sia quasi impossibile; possibile è invece pianificare “anticipandoli”, preparandosi alla sfilata come il segnale dell’arrivo e non come oggi dello sparo dello starter.

Pianificare però vuol dire organizzarsi e, almeno nel campo della moda organizzare la creatività è considerato un ossimoro.

E’ veramente così?

Più dello stile, oggi conta la velocità. Ecco cosa ricordare della settimana della moda milanese. Un avvenimento che vede stilisti, industrie e istituzioni a una svolta
di Simone Marchetti (seidimoda)

L’edizione appena conclusa della settimana della moda milanese è stato come un biglietto di sola andata, per stilisti e istituzioni cittadine, un traguardo raggiunto dal quale non è più consentito tornare indietro. D’ora in avanti, si potrà soltanto procedere: pena l’esclusione dal palcoscenico della moda internazionale. Perché più che di stile, questa stagione è stata una questione di modi, di strategie e di progetti comuni.

Innanzitutto, ha vinto l’idea di concentrare le sfilate intorno a piazza del Duomo, consentendo più agilità e meno confusione. Il calendario lungo, poi, ha obbligato gli addetti ai lavori a fermarsi per tutti i giorni in cui si erano schierati i big del Fashion System, anche se, bisogna ammetterlo, non sono mancati i posti vuoti in passerelle di solito gremite di persone.

Il Comune di Milano ha dimostrato un impegno encomiabile nel fare da trainante, insieme alla Camera Nazionale della moda, per portare tutti gli stilisti a una decisione comune. “Ringrazio tutte le istituzioni, gli stilisti e la Camera del Commercio di Milano” ha dichiarato questa mattina il sindaco Letizia Moratti. “Questo impegno comune è destinato a continuare anche nelle prossime edizioni perché la moda è una colonna portante della nostra città”.

Tuttavia, le iniziative culturali che il Comune è riuscito a organizzare per questo evento, continuano a restare sotto la soglia di quanto si potrebbe fare. Ancora una volta, Parigi resta un esempio: le mostre di Yves Saint Laurent al Petit Palais o quelle di tanti stilisti, anche italiani, al Louvre dovrebbero vedersi anche a Milano.

Non è mistero, infatti, che la cultura da sempre alimenta la moda e quindi rafforza l’industria: non a caso, lo stile Saint Laurent, mutuato dalla recente mostra parigina, ha imperato su tutte le passerelle.

Ma oltre alle tendenze emerse da questa edizione di Milano Moda Donna (di cui Seidimoda ha scelto le migliori 10), ciò che sta facendo tremare tutti gli addetti ai lavori è il tempo.

O meglio, la velocità.

Trasformata da internet ed elettrizzata dal commercio online, la nuova generazione di consumatori fashion victim non ha voglia di aspettare. E chiede subito ciò che vede in passerella.

Da questo consegue che le classiche sfilate, i quattro mesi per la produzione e la distribuzione dei capi, più tutto il meccanismo di stampa e compratori tradizionali, stanno scricchiolando dalle fondamenta.

A riguardo, l’ultima sfilata di Burberry Prorsum, a Londra, ha gettato una pietra miliare. Al termine dello show, sulla pagina di internet del brand inglese si potevano già acquistare i capi visti in passerella con un tempo di consegna di un mese e mezzo.

Ovvero, meno della metà del solito meccanismo. Ma cosa succede, quindi, al classico sistema di negozi e boutique?

“Succede che la velocità sarà il nostro nuovo metro di giudizio“, ha confermato Miuccia Prada a Seidimoda. “I nostri negozi vedono già un ricambio incredibile di collezioni, quasi settimanale”, continua la designer. “Come stilisti e come aziende non abbiamo scelta: bisogna seguire questo corso, adeguarsi ai nuovi ritmi. Dal canto mio, questo mi stimola perché mi costringe a cambiare. E la moda è soprattutto cambiamento”.

Dello stesso avviso è anche Alessandro Benetton, arrivato a Milano per l’inaugurazione di un rinnovato negozio Benetton nello strategico Corso Buenos Aires.

“Non penso che il commercio online sia pronto a sostituire quello reale. Al contrario, penso che occorre dedicarsi più al retail. Negli ultimi cinque anni, abbiamo investito 700 milioni di euro nei nostri punti vendita. E oggi vantiamo una presenza di 5000 negozi nel mondo. Però concordo col fattore velocità, da sempre prerogativa di Benetton. A questo, comunque, vanno aggiunti qualità, prezzo competitivo e un’offerta completa”.

How the Internet Is Changing the Fashion Industry in 2010

by: Lauren Indvik (Mashable)
The fashion industry functions much like your least favorite high school clique: A leader boldly undertakes something new, a few imitators cautiously follow suit and the rest then clamber to participate before the trend dies out.

The same pattern has emerged so far this year, as brands sample new digital and mobile technologies to market to and engage with consumers. In particular, brands took to location-based social network Foursquare to build buzz around new product launches, like Jimmy Choo’s line of trainers, and Oscar de la Renta’s limited-edition series of python iPad clutches.

In addition to campaigns, fashion brands released a significant amount of behind-the-scenes content on a regular basis, ranging from blurry mobile snapshots of runway models for quick distribution over Facebook and Twitter, to professionally produced short films delivered exclusively on company websites and mobile apps.

Perhaps the most gratifying development this year began with LOFT — specifically, LOFT’s Facebook Page. The company’s corporate staff answered a widespread call for “real women” models by modeling the clothes themselves and posting them to Facebook, sparking a flurry of positive media attention and several imitators within the industry.

Let’s take a look at how the Internet has affected the fashion sector — in particular, marketers and media — thus far in 2010.


Marketers Embrace Location-Based Services


Brands have continued to leverage social networks for big product launches. This year, the fashion industry proved particularly keen on location-based gaming platform Foursquare.

Marc Jacobs was the first major designer to take advantage of the network. During New York Fashion Week in February, Marc Jacobs distributed “Fashion Victim” badges to those who checked in to one of its stores around the country. Four users who checked in to one of its New York stores were also awarded tickets to its runway show, notoriously one of the most difficult to get access to during Fashion Week.

Although Marc Jacobs may have been first, Jimmy Choo’s use of Foursquare was certainly the most creative. Its spring Catch-a-Choo campaign had women running all over London in order to secure a pair of the company’s new line of trainers (or sneakers, in American speak).
The company used the platform to check in at various fashionable locales; checkins were broadcast over Facebook and Twitter, and the first person at each site was awarded a free pair of trainers. Roughly 4,000 people participated in the chase, which was picked up by the mainstream and online media alike. Sneaker sales subsequently increased by 33%, media agency Luckie & Co told WWD.

Several other brands also took advantage of location-based networks to build buzz around big events. Louis Vuitton awarded a “Vuitton Insider” Foursquare badge to followers who checked in three times at its new London boutique. Oscar de la Renta gave away an iPad clutch to the Foursquare mayor of its flagship store in July.

TOMS and AT&T teamed up to give away 1,000 TOMS shoes and other prizes via Gowalla in August. And many others, including Cynthia Rowley, Gap, Juicy Couture and Ann Taylor, offered significant discounts to shoppers who checked in at retail locations via Foursquare.

In addition to location-based networks, fashion marketers also continued to use Facebook and web-based social styling platform Polyvore to promote new product lines. To coincide with the release of his first men’s fragrance, dubbed Bang, Marc Jacobs built a Facebook game titled Bang! You’re it! which encouraged users to “Bang” their friends and crushes for chances at giveaway prizes. Online retailer Yoox also launched a Facebook application to draw attention to its fall catalog. Polyvore hosted many brand-sponsored contests to encourage users to explore new collections; American designer Prabal Gurung even premiered pieces of his Spring 2011 collection to online consumers before his New York Fashion Week show in September.


Brands Become Content Creators


Marketers haven’t limited their social media use to big campaigns this year. In fact, many have released a steady stream of content on their companies’ websites, as well as platforms like Facebook, Twitter, YouTube, and iOS (via mobile applications).

The most common of these were behind-the-scenes shots, which were quickly captured via mobile phones and digital cameras and distributed over Facebook and Twitter. Livestreams of runway shows also proved enormously popular this year. During fall fashion shows in February, only Louis Vuitton and Dolce & Gabbana live-streamed their shows via the web and their respective mobile applications; by September, nearly every brand provided live footage of their presentations to fans on the web. Fashion Week, once an exclusive series of events for media and buyers, became a global spectacle for consumers.

In addition to Twitpics and livestreams, many brands also released professional-quality celebrity interviews and short films, like the one produced by Chanel lead designer Karl Lagerfeld above. These videos were not designed to sell individuals items (Chanel does not even sell online) but rather to bolster brand luster.

During London Fashion Week, Burberry Creative Director Christopher Bailey observed (via Twitter, no less) that Burberry is “now as much a media-content company as [it is] a design company because it’s all part of the overall experience.” Like many other fashion houses, Burberry released a heavy amount of video and photographic footage of its September catwalk show, giving fans the ability to peak backstage and watch the show live online.


Companies Learn to Listen


In addition to marketing, many brands also learned to use social networks to listen to customers for the first
time.
In June, LOFT posted pictures of its new silk cargo pants worn by a tall, blonde catalog model on its Facebook page. Fans complained that it was impossible to tell if the pants would be flattering on someone who wasn’t “5′10″ and a stick like the model in the photo” and asked if the fashion retailer would show the pants on “real women” instead.

The next day, LOFT posted pictures of its own corporate staff — ranging from sizes 2 to 12, and from 5′3″ to 5′10″ — posing in the cargo pants. Each styled the pants according to their own aesthetic, and explained why they liked the fit and drape of the product.

Fan response was overwhelmingly positive. “I sooooo appreciate you taking the time to ‘listen’ to our comments and show these pants on ‘real’ women,” one woman wrote. After Mashable’s initial report, a number of other media outlets, including Jezebel, WWD and The Huffington Post re-reported the story, drawing even more acclaim for the brand, which has since continued to post photos of “real women” modeling its clothing. Other brands, like Nanette Lepore, soon began posting photos of staff modeling their own clothing as well.

While a number of large companies, such as Comcast, Ford, Virgin Airlines, Starbucks and Best Buy, have used social media to inspire customer loyalty and satisfaction, we hadn’t before seen this level of engagement between a fashion company and its fans. It’s a trend we hope continues to develop for the rest of 2010 and into 2011.


Other Trends


Besides the wider movements cited above, many smaller trends also emerged this year. Following the launch of Apple’s iPad, many individual brands and retailers developed and released apps for the device, including MaxMara, Gilt and Dolce & Gabbana. Many online retailers, such as Neiman Marcus, began holding flash sales for the first time in order to compete with the likes of Gilt and Rue La La. Burberry and Christian Louboutin upgraded their online catalogues to include high-quality video as well as photographic footage of products, allowing shoppers to examine the texture and drape of a python trench coat or the glitter of a jeweled strap, as if they were holding the product in the store.

With two months to go and the holiday campaign season just around the corner, there’s still plenty of opportunity for new ground to be broken by industry pioneers. Expect to see plenty of behind-the-scenes footage from holiday parties, a winter-themed short film or two and location-based marketing initiatives designed to drive customers into stores this season.

Which News Sites Get the Most Social Media Engagement?

by ADAM SHERK

It is safe to say that most news sites are now experimenting with various forms of user engagement and content promotion through social media. In recent years many larger news organizations were still coming to terms with the need for a social presence and the nature of their participation. Now the focus is decidedly more tactical with sites looking to understand how to maximize the benefits of their efforts and better integrate them with other marketing initiatives.

So which news sites are getting the most out of their social media efforts?

That’s not an easy question to answer without having access to each site’s analytics data and knowing their goals and objectives. But it is possible to make some basic comparisons using data from some of the free tools that are available.

Since I’ve been comparing major news sites in variety of areas (Facebook and Twitterimpact; YouTube and new Digg activity; site speed and domain authority, among others) I thought I’d look at overall social media engagement too.

PostRank has a comparison tool that uses its Domain Activity API to measure total engagement based on user participation across multiple social platforms. So I ran 30+ news sites through the tool.

PostRank counts “engagement events” which it defines as individual activities such as a tweet, like, comment, digg, RSS view, etc. It then assigns “engagement points” to each event; events that demonstrate a higher level of effort and engagement are given higher values. These points are combined into a total engagement score (for more information see What is Engagement? on their site).

So which news sites are getting the most social media engagement?

PostRank
Engagement Score
1 The New York Times 11,292,352
2 CNN 7,413,850
3 BBC News 6,760,101
4 Yahoo News 5,894,236
5 The Guardian 4,906,694
6 The Huffington Post 4,721,214
7 Slate 3,526,905
8 The Wall Street Journal 3,354,520
9 Reuters 2,891,586
10 The Washington Post 2,415,594
11 Los Angeles Times 1,919,978
12 Fox News 1,690,950
13 Telegraph.co.uk 1,609,460
14 Daily Mail (UK) 1,304,779
15 NPR 1,114,516
16 Time 985,036
17 The Boston Globe 790,635
18 BusinessWeek 582,067
19 CBS News 565,777
20 Newsweek 562,238
21 The Economist 533,245
22 AP 515,010
23 ABC News 494,823
24 Chicago Tribune 448,363
25 The Financial Times 431,672
26 Forbes 366,096
27 USA Today 363,859
28 The Christian Science Monitor 254,322
29 AOL News 194,779
30 UPI 157,093
31 MSNBC 84,823

The New York Times leads the pack by a considerable margin. CNN, BBC News, Yahoo News, The Guardian and The Huffington Post form the next tier. The top 15 sites earned scored over 1 million; from that point the scores begin to drop considerably.

Here is a head-to-head look at the top three (click to enlarge):

PostRank scores for The New York Times, CNN and BBC News

The BBC News score is somewhat inflated because the PostRank tool cannot isolate by subdirectory so I had to measure all of bbc.co.uk, not just bbc.co.uk/news/. But in going through the site a substantial portion of the content is news so I opted to include it.

In looking at these figures it is important to note that sites with larger audiences have greater opportunities for engagement, so bigger brands are likely to have larger numbers. But reach and total engagement do still matter so I wanted to make that comparison.

More important is the quality of the engagement and the actions that are triggered by it. A smaller number of engagement points that directly lead to traffic, links, fans, signups, revenue or any other desired action can be much more valuable than just raw user activity across social platforms.

 

“Total reality”, un mondo sempre meno virtuale e sempre più reale

by Andrea Boaretto

Un concetto sempre più ricorrente e spesso collegato a quello della multicanalità è quello della realtà aumentata. Ciò che fino a pochi anni fa sembrava uno scenario fantascientifico è entrato, grazie al progresso sorprendente delle tecnologie, nella sfera del possibile ed effettivamente non è poi così lontano.

Non è più corretto, infatti, parlare del contrasto tra mondo fisico e mondo virtuale; le realtà parallele sul modello di Second Life, che hanno contribuito a plasmare l’immaginario collettivo del mondo di Internet, oggi vengono sostituite da una realtà che potremmo definire “ibrida”. La commistione tra il mondo fisico, che funge da supporto, e il mondo virtuale, che permette di arricchire di informazioni luoghi e oggetti, ha prodotto un nuovo contesto, stratificato attraverso diversi piani di contenuti, in grado di offrire a chi lo vive esperienze, servizi e informazioni in modo sempre più completo e senza soluzione di continuità. Questo concetto è stato tradotto da Dario de Judicibus con l’espressione “realtà totale” ed è confluito in un interessante articolo, segnalato sul nostro sito Marketing Reloaded. L’espressione “realtà totale” identifica un mondo in cui, da un lato, ogni oggetto rappresenta un’interfaccia verso il mondo virtuale, e, dall’altro, dal mondo virtuale è possibile gestire qualsiasi oggetto reale. Il concetto chiave risulta perciò essere la connessione, sempre e dovunque, che giunge ad eliminare le distinzioni tra realtà fisica e virtuale. L’esperienza così offerta è di carattere pervasivo e coinvolgente, poiché non è limitata a determinati ambiti, bensì permea tutto l’ambiente e costituisce una sorta di fluido onnipresente. Il cambiamento che si preannuncia, perciò, è davvero di carattere epocale e presuppone un conseguente riadattamento delle logiche tanto degli individui quanto delle imprese. Nello specifico risulta però ancora più difficile tentare di prevedere quali saranno gli effetti di questa nuova realtà, da una molteplicità di punti di vista: che effetti si verificheranno sulle persone? Come muteranno le loro abitudini in termini di socialità, mobilità, informazione, relazione con le aziende? Queste ultime come potranno relazionarsi con queste nuove dinamiche? Gli strumenti a loro disposizione aumenteranno o diminuiranno? E il “controllo” nei propri spazi che conseguenze subirà? Si tenderà ad essere più “gelosi” e più attenti alla privacy o si arriverà finalmente ad un’apertura totale? Non dovremo attendere molto per scoprirlo…

Parla con me! Il QR Code dà voce (e video) alla pubblicità cartacea

by comunicazioneitaliana

Dovremo presto aggiornare i libri di marketing e collocare la “press advertising” tra i media interattivi? Sembrerebbe proprio di sì, dal momento che la crescente presenza del Qr Code nelle pagine pubblicitarie, e non solo, sta rivoluzionando i rapporti tra azienda e cliente da un lato e tra pubblica amministrazione e cittadino dall’altro.

Il codice QR (l’acronimo sta per Quick Response) è stato sviluppato nel 1994 in Giappone dalla Denso Wave per tracciare i pezzi di magazzino nelle fabbriche Toyota. Per la sua caratteristica di contenere molti più dati di un normale codice a barre, è stato poi adottato da molte altre a aziende per gestire le scorte. Dal 1999, quando è stato rilasciato sotto forma di licenza libera, ad oggi, ha trovato numerosissime applicazioni. Le più interessanti sono quelle legate all’uso dei cellulari.

Fotografando con il proprio telefonino il codice QR presente nella pagina pubblicitaria, ma anche nelle affissioni, nelle brochure, nei cartelli turistici, nei musei, ecc. in pochi secondi appare sul display del cellulare la pagina web dedicata e il menu di navigazione. Senza dover digitare la URL!

In questo modo si può, in pochi istanti e in qualsiasi luogo, collegarsi al sito dell’azienda o dell’ente per:

  • approfondire l’informazione,
  • richiedere un catalogo,
  • ascoltare testimonianze,
  • vedere brevi filmati,
  • lasciare un commento
  • leggere o ascoltare una recensione
  • effettuare un acquisto online,

In pratica, che cosa occorre?

Non serve il computer, basta un cellulare con fotocamera.

I telefonini di ultima generazione leggono il codice in automatico perché il software è già inserito; per gli altri, basta scaricarlo gratis una tantum e vale per tutti i codici Qr.

Chi lo utilizza e per quali applicazioni?

Il codice QR ha fatto la sua comparsa nella catena H&M e sui prodotti delle grandi firme come Gucci, Ralph Lauren, Louis Vuitton e Roberto Cavalli. Campeggia in formato gigante sui muri delle città italiane e nelle affissioni della birra Ceres e dell’automobile Mini.

E’ sui volantini di Unieuro e di Costa Crociere. Perfino le etichette di alcuni vini blasonati presenti al Vinitaly, o alcuni pezzi di design del Salone del Mobile di Milano non lo disdegnano. Panorama, tra i settimanali, è stato il primo a inserirlo dal dicembre 2009 per commentare gli articoli pubblicati. Oggi sono centinaia di migliaia i clic settimanali dei lettori. Visto il successo, molti quotidiani e periodici lo hanno adottato per allargare la propria offerta informativa.

Ma forse l’applicazione più originale è della Ragno che lo utilizza nelle etichette dell’abbigliamento intimo per svelare i materiali con cui è confezionato un capo e fornire i suggerimenti per il lavaggio.

More Content Shared on Facebook but Twitter Click-through Rate Much Higher

by ADAM SHERK

What gets more traction for publishers: content shared on Facebook or Twitter? According to the Social Media Sharing Trends 2010 report from SocialTwist, Facebook dominates content sharing among social media sites but links shared on Twitter have a much higher click-through rate.

SocialTwist examined content shared with its Tell-a-Friend widget from August 2009 to July 2010.

Among social networks Facebook accounted for 78% of shares, well more than any other choice. Twitter was third with just 5%:

Content sharing statistics for Facebook and Twitter

But in looking at click-through rate Twitter’s CTR was 1904% compared to 287% for Facebook:

Facebook and Twitter clickthrough rates

That means that on average Twitter shares got 19.04 clicks vs. only 2.87 clicks per share on Facebook.

This makes sense since by design Twitter usage is focused on short comments/exchanges and sharing links, while there is a lot more happening on Facebook that can take up users’ attention. But the sheer volume of Facebook sharing means that total referrals from Facebook shares are still higher for many publishers.

Another thing worth noting from the study is that email still dominates content sharing though it is starting to lose ground:

Social media content sharing statistics

 

Integrazione Facebook Bing: il motore di ricerca sociale

by vincos

La partnership tra Microsoft e Facebook raggiunge oggi un traguardo importante, proprio nel giorno in cui Marissa Mayer, responsabile dell’evoluzione di Google, fallisce il suo obiettivo di realizzare un “motore di ricerca sociale”.
L’obiettivo di Zuckerberg di “organizzare l’informazione intorno alle persone” trova il suo compimento attraverso l’unione con Bing e la tecnologia conosciuta come
Instant Personalization.

Da oggi gli utenti di Facebook, al momento solo quelli statunitensi, che faranno una ricerca attraverso Bing, o attraverso il motore interno di FB, saranno in grado di vedere i risultati organizzati in base agli interessi e alle raccomandazioni dei propri amici o degli amici dei propri amici. I risultati mostreranno gli argomenti di maggior interesse della propria rete sociale e anche i “like” dei propri contatti. Ad esempio se si cerca un ristorante si otterranno risultati anche in base ai check-in effettuati dagli amici in quel luogo.

Se invece si cerca il nome di una persona si otterranno dei risultati (foto e luogo di residenza) basati sulle informazioni del profilo di Facebook. Nel caso di omonimie si potrà scegliere la persona che effettivamente si stava cercando aiutati dal contesto (magari perchè è un amico di un nostro amico) e decidere di inviargli un messaggio o richiedere la sua amicizia.

Al momento non sembrano esserci problemi di privacy: tutte le informazioni cui Bing può accedere e mostrare sono solo quelle che l’utente di Facebook ha deciso di rendere pubbliche. Chi non volesse utilizzare questa integrazione spinta tra Bing e Facebook può evitare di usare il motore di ricerca o disabilitare l’Instant Personalization (dalle impostazioni di privacy del proprio profilo).

L’obiettivo di un sito Internet? Attrarre nuovi fan su Facebook!

by Michele Polico – youngdigitallab.com

So bene quanto sia contestabile il titolo di questo post, infatti vuole essere (fino a un certo punto) una provocazione per discutere dell’importanza di Facebook e dei social media rispetto a canali più tradizionali dell’online communication.

Innanzitutto, si dirà che i fan di Facebook non sono utenti dell’azienda ma di Facebook.

Io credo che gli utenti non siano di nessuno: sono persone libere di cancellarsi da una newsletter o da una community aziendale, cosiccome di visitare o meno un sito o una pagina Facebook. L’obiettivo non può essere mai solo quello di raccogliere numeri, ma deve essere quello di attrarre delle persone, di restare nelle loro menti al momento del bisogno, e di piacere loro. In generale, di essere scelti nel momento dell’acquisto. Inoltre Facebook rende più semplice comunicare nuovi prodotti e nuove offerte ai propri fan rispetto a qualunque altro strumento!

Si dirà poi che su Facebook i risultati non sono misurabili, o lo sono meno rispetto ad altri strumenti, che si perde il controllo sul branding e sui propri contenuti e che non è possibile controllare l’intero flusso comunicativo, o ancora che richiede troppo tempo rispetto ai risultati che può offrire e che manca il ritorno sugli investimenti: insomma che sì, è uno strumento utile ma non ha senso investirvi grosse risorse, rispetto all’online advertising, alla realizzazione del sito e alla SEO.

Oltre a questo, si dirà che un sito Internet risponde ad una totalità di esigenze e di obiettivi, e su questo sono perfettamente d’accordo.

Il sito Web di una azienda è infatti un canale imprescindibile e unico per la comunicazione e l’identità di un brand.

Ma la mia affermazione – ovvero che l’obiettivo di un sito Internet sia quello di attrarre nuovi fan su Facebook – è chiaramente una affermazione parziale, che mira a discutere un aspetto specifico del rapporto tra sito Internet e pagina Facebook (o profilo Twitter e via dicendo).

Ci si chiede molte volte se l’utilizzo dei social media possa aiutare la SEO (come ad esempio ha fatto il buon Enrico Madrigano in questo video), o quante visite dirette al sito possano arrivare da una pagina Facebook, da un video su Youtube o da un profilo Twitter.

In pratica, ci si chiede spesso se e come i social media possano attrarre nuove visite a un sito istituzionale, relegando a volte solo a questo la loro funzione. E alcune aziende valutano proprio questo dato per cercare di misurare l’efficacia di una azione su Facebook (è la metrica più gettonata dopo il numero di fan della pagina).

Ora, quello che credo io è che – per certi versi – l’ideale sarebbe che il navigatore che proviene da Facebook diventasse prima fan e poi visitasse il sito Internet, e che al tempo stesso, chi passa per il sito ad esempio da Google, atterrasse poi su Facebook diventando fan.

Sito e pagina Facebook si devono dunque sorreggere a vicenda, ma spesso le aziende e alcuni consulenti tendono a dare troppa importanza relativa al sito Internet, attribuendo ai social la funzione esclusiva di portare traffico.

Questo è quello che rappresenta per me uno degli errori più comuni quanto peggiori che si possano fare approcciando al social media marketing, errore frutto di una impostazione antica nel modo di fare Web marketing e comunicazione online.

Bisognerebbe invece comprendere come ogni canale aziendale online possa aiutare a raggiungere obiettivi specifici, comunicando con una determinata tipologia di persone un determinato tipo di contentui, e come insieme, in maniera corale, utilizzando i canali in maniera aggregata, si possano raggiungere gli obiettivi più lontani!

A livello progettuale, è indispensabile ottimizzare la conversione reciproca tra sito dell’azienda e canali social, curando e rendendo semplice il passaggio da uno all’altro all’altro ancora, e ottimizzando sia i percorsi di navigazione ma anche i contenuti specifici e la loro interazione tra i diversi canali.

Ma non è solo questo il punto. Se ammettiamo il fatto che la comunicazione online debba essere continuativa, multidirezionale, veloce, capiamo come siano Facebook e Twitter, rispetto al sito Internet, i canali privilegiati.

Il sito Internet è fondamentale in quanto, adottando una corretta strategia SEO, può servire ad utilizzare Google come un punto di contatto con le persone. Inoltre rappresenta per molti un punto di riferimento ed è il luogo migliore per esprimere in modo univoco la “storia” del brand e le informazioni puntuali di vario tipo sull’azienda, inoltre per aggregare i tanti progetti di una azienda ed esprimere la sua intera offerta (di prodotti, comunicativa ecc).

Ma la conversazione continuativa , quella che aiuta a diventare top of mind e a venire scelti al momento dell’acquisto, quella che aiuta a tastare il sentiment, che potenzia il customer care e il CRM, non può svolgersi se non nei social media.

Che fare dunque? Voi cosa ne pensate?

Quello che penso io è che aziende e agenzie debbano considerare ogni canale come funzionale a un certo tipo di obiettivi, di pubblici e di comunicazione, e dare un peso fondamentale a tutti, senza considerare alcuni solo al servizio di altri.

E’ indispensabile progettare l’integrazione perfetta tra i diversi canali aziendali e i contenuti che l’azienda propone, ed è importante non considerare più – come a volte sento fare – i social media al servizio di strumenti più tradizionali o come soluzione di problemi di altri tempi.

Al tempo stesso, è chiaro che il solo obiettivo di un sito Internet non sia portare le persone su Facebook (altrimenti basterebbe un semplice redirect), ma è chiaro che – una volta che il visitatore ha raggiunto il nostro sito è importante fare in modo che possa diventare nostro fan e condividere i contenuti con la propria rete nella maniera più agevole possibile, in modo da ottenere da un contatto occasionale una relazione, a mio avviso molto più personale e fruttuosa di un anonimo contatto email.

Quando il target è preciso il viral arriva per posta

by Guido Ghedin – youngdigitallab.com

A dir poco geniale la campagna promozionale per Paranormal Activity 2, l’atteso sequel del film/mockumentary che, nel bene o nel male, rimane un case study che ha fatto la storia del cinema moderno. Tutto succede al Fantastic Fest, rassegna cinematografica che si svolge ogni anno ad Austin, Texas, focalizzata su film horror e fantasy.

Tra la miriade di partecipanti al festival, è stato individuato un sostanzioso numero di bloggers particolarmente influenti nel contesto “horror movies” (da BloodyDisgusting aDreadCentral). Ora arriva il bello: costoro sono stati raggiunti (uno per uno, nelle rispettive camere d’albergo) da un pacchetto contenente una chiave USB, nella quale c’era un teaser trailer di pochi secondi.

La cosa realmente interessante è che ognuno ha ricevuto un video diverso, ovviamente da postare nel rispettivo blog. Il risultato è notevole: il grande pubblico viene coinvolto in una sorta di caccia al tesoro in giro per il web, alla ricerca dei frammenti di trailer. Anche se c’è da dire che si può barare: basta andare su YouTube e si trovano tutti… da qui infatti arrivano i due micro-trailer che pubblichiamo:

In realtà ne circolano una decina: per saperne di più seguite Vita di un IO, un appassionato horror fanatic che sta minuziosamente raccogliendo i pezzi del puzzle… blog per blog!

Ma abbandoniamo gli aspetti intirganti e divertenti della campagna e concentriamoci sul versante della logica di comunicazione: imperativo è “non sprecare contatti”.

L’investimento viene massimizzato, spendendo il minimo e puntando solo agli “sneezer”, valorizzando al massimo ogni singolo contatto con il target. Una perfetta sintesi di quello che è (o dovrebbe essere) il marketing virale.

Per chi non lo ricorda, era stata adottata una tecnica simile nel 2008 per True Blood, fiction americana su HBO a tema vampiri, anticipata da una campagna virale decisamente coinvolgente, tra fake website e advertising di prodotti rivolti a vampiri.

Lo so, ricorda moltissimo il lancio promozionale di Cloverfield: in questo caso, però, parte integrante della campagna è stato l’invio di materiale via posta tradizionale.

Il primo round era infatti una lettera scritta in un codice incomprensibile: un’azione decisamente teaser, come dimostra l’articolo di questo blogger, assolutamente ignaro di cosa fosse. Il secondo step è stato l’invio di un “drink sampler”, ossia una provetta con la bevanda Tru Blood, il famoso sangue sintetico attorno al quale si sviluppa la serie televisiva (acquistabile online qui!).

Il target erano più di 500 tra tech savvy, bloggers, giornalisti di testate televisive… insomma un esercito di “influencers” pronti a mettere in rete il virus, aiutando la campagna a raggiungere complessivamente 5.9 milioni di viewers (mica male).

Tornando a noi, il primo Paranormal fu un capolavoro di marketing: costato al regista israeliano Oren Peli 15 mila dollari, venduto alla Paramount per svariate centinaia di migliaia, attualmente fermo a quota 193 milioni di incasso in tutto il mondo. La logica di base è quanto di più virale ci possa essere: inizialmente veniva proiettato nelle college town americane, ed è stato diffuso praticamente a costo zero, invitando il pubblico a richiedere la proiezione del film nella propria città. Come vedete dal banner qui sotto, ci riprovano: si invita espressamente il pubblico a farsi “untore” (Demand it!), al fine di portare il film in ogni angolo d’America giocando sullo “snowball effect”, in questo caso per avere la pellicola in anteprima.

Ricapitolando: un’idea efficace per lanciare il film tramite gli influencers e un sistema promozionale a basso costo per la distribuzione. Come esempio di integrated marketing direi che fa scuola, no?