Le sette lampade dell’architettura di Ruskin John (1849)

1. LAMPADA DEL SACRIFICIO: la dedizione, la volontà di fare una cosa bene per la cosa in sè;

2. LAMPADA DELLA VERITA’: accogliere la difficoltà, la resistenza, l’ambiguità;

3. LAMPADA DEL POTERE: potere temperato non solo cieca volontà;

4. LAMPADA DELLA BELLEZZA: bellezza del particolare più che in generale;

5. LAMPADA DELLA VITA: vita uguale lotta , energia;

6. LAMPADA DELLA MEMORIA: la guida fornita dalle epoche precedenti;

7. LAMPADA DELL’OBBEDIENZA: nei confronti dell’esempio proposto dalla pratica di un maestro, più che dalle sue opere.

 

C’è la crisi? E i giornali diventano negozi

by Pambianco.com
 
Sotto da sinistra Leiweb.it si può comprare il look delle celebrities e Glamour Personal Shopper, applicazione della rivista Glamour che propone un outfit e, attraverso la geolocalizzazione, porta l’utente nel negozio

Ecco l’ultima frontiera dell’e-commerce: le riviste, forti della loro credibilità presso i lettori, sempre più spesso rendono disponibili per l’acquisto immediato i capi proposti nei loro servizi, grazie a partnership con i portali di e-commerce. Un’opportunità per le aziende che si avvantaggiano della credibilità della testata e della sua audience di lettori appassionati di moda.

Anni duri per i magazine cartacei: tra la crisi editoriale, gli investimenti pubblicitari in frenata e la concorrenza di iPad, tablet e smartphone, che inducono l’utenza a sfogliare la testata on-line piuttosto che ad acquistarla in edicola, le riviste perdono lettorato e anche i loro bilanci languono. Cosa c’è di meglio allora che dotarsi di una piattaforma commerciale per aumentare i ricavi drasticamente in calo? Ecco allora che i giornali si gettano nel pingue business delle vendite on line. Tra i primi l’americano GQ, che all’interno del nuovo sito Park & Bond, dedicato ai designer di abbigliamento maschile, apre il suo GQ Store, dove ogni mese la redazione della rivista seleziona una serie di outfit dalle pagine del magazine e li mette in vendita nel negozio virtuale. Discorso simile per Esquire: il New York Times del 25 settembre scorso sottolinea che, nell’ultima edizione del magazine, il direttore David Granger ha invitato i lettori a comprare i capi selezionati dalla rivista sul nuovissimo sito Cladmen.com. Grande giubilo inoltre per le fashionistas che non si sono perse le ultime passarelle della primavera-estate 2012: possono acquistare i capi di alcuni stilisti in anticipo di stagione, come quelli di Diane von Fürstenberg, Marc Jacobs e Derek Lam, direttamente dall’indirizzo web di Vogue Usa. Il big magazine della Condé Nast si appoggia al sito Moda Operandi per effettuare i preordini subito dopo le sfilate. Quello che a prima vista può sembrare un affare venale, cioè l’alleanza tra editoria e commercio, è indubbiamente un modo per rimpinguare le casse delle testate, offrire un servizio ai lettori e incrementare anche l’affidabilità dei magazine con il nuovo ruolo di “personal shopper”, capaci non solo di creare desiderio attorno al prodotto, ma anche di soddisfarlo. Allo stesso tempo, sia per le aziende che per i siti di vendite on line, la partnership con la testata può offrire maggiore credibilità, perché le consumatrici sono più propense ad acquistare un capo selezionato e consigliato dai direttori creativi dei magazine.

Cosa accade in Italia

Anche nel Belpaese le riviste si affiancano al retail, e tra gli esempi più significativi citiamo quelli che fanno dello shopping un momento di entertainment e di gossip glamour. Leiweb.it, che conta 2 milioni e mezzo di utenti unici al mese e una media di 40 milioni di pagine viste, fa leva sul piacere voyeuristico che hanno le consumatrici nello scoprire cosa indossano le celeb. Grazie a un accordo con Yoox.com e con la start up californiana Stipple, il portale ha lanciato la rubrica “Copia (e compra) il look delle star”: la redazione posta la foto di una celebrity e 1’utente può cliccare sulla sua giacca o pantalone e venire automaticamente indirizzato al sito di acquisto. “Ovviamente – spiega sorridendo Simona Tedesco, direttore Leiweb.it – si è indirizzati a modelli di abbigliamento simili a quelli indossati dalla star, ma non sono gli stessi, perché di solito i vestiti dei vip vengono fatti su misura”. Glamour invece ha lanciato un’applicazione per iPhone, “Glamour personal shopper”, già scaricata da oltre 90mila utenti, attraverso la quale la redazione posta ogni mattina un outfit diverso, e se l’utente è interessato all’acquisto di alcuni capi viene inviato, attraverso il sistema di geolocalizzazione, al negozio vicino dove può trovare le proposte. Un esperimento curioso è poi quello ideato dalla giornalista-blogger Silvia Paoli (www.lostinfashion.it), che ha testato un modo diverso di fare shopping: attraverso il suo blog e la pagina facebook ha chiamato a raccolta un folto numero di fashion victim che si sono date appuntamento a un determinato giorno e a un’ora precisa per fare shopping virtuale insieme. Come? Ognuna si collegava alla tv QVC, canale di vendite americano da un anno in Italia, visibile su Sky, digitale terrestre e via web, e contemporaneamente tutte le telespettatrici postavano commenti e suggerimenti sul web all’interno del minisito Qvctherapy.it. “E lo sharing di un’esperienza – osserva Silvia Paoli – dove tv e internet convivono. Si tratta di una modalità di condivisione che potremmo definire – social media watching – e che probabilmente si affermerà nel breve periodo, perché presto Facebook consentirà di condividere con gli amici la visione di video in contemporanea”.

Twitter, gli hashtag e l’Intelligenza collettiva

by ninjamarketing.it

Twitter sta diventando sempre più centro nevralgico del dibattito sul web. Per certi versi, più di Facebook. Vuoi per la sua natura centrifuga  (come sottolineato in un’intervista molto interessante dal collettivo WuMing) vuoi per il fatto che grazie agli hashtag è possibile indicizzare le discussioni.

Nel 2010, ci racconta Laura Larsell nel post “How Hashtagging the Web Could Improve Our Collective Intelligence” la biblioteca del Congresso Americano ha cominciato ad archiviare letteralmente i contenuti prodotti sul sito di microblogging, con la consapevolezza che un giorno tutta questa mole di dati sarebbe stata utile.

Per cosa? Per comprendere se l’interazione prodotta nel mare di trending topic, tweet, menzioni e retweet formasse non un magma senza forma ma una vera e propria struttura intellettiva, quasi una rete formalizzata di pensieri e tendenze.

Un insieme formato da freddure, concetti e citazioni che restituisce di fatto la fotografia di un pianeta in evoluzione.

Certo, i numeri non sono planetari: ancora in troppi nel pianeta non hanno un accesso garantito a Internet e in percentuale molto pochi sono gli user di Twitter. Si pensi al caso Italia: a maggio 2011 il 71% circa degli italiani utilizzava abitualmente la Rete, mentre gli utenti abituali del sito di microblogging si attesta sui circa 350.000 utenti attivi su un numero di iscritti che si attesta intorno al milione e mezzo (dati ottobre 2011). Un numero crescente, che visti anche i recenti fatti che hanno coinvolto il nostro paese è ormai considerato come indicatore dell’opinione pubblica.

A rendere così importante Twitter è proprio l’hashtag, che permette di seguire e indicizzare facilmente ogni discussione, rendendo quindi il magma dei contenuti, come spiegato prima, un reticolo dotato di senso.

Prendiamo l’esempio che fa Laura con una ricerca sul termine “watermelon“, in italiano cocomero o anguria: indicizzando la ricerca su questo termine, il motore di ricerca integrato di Twitter ha permesso alla sociologa di mappare tutti i contenuti relativi all’argomento – ovviamente, molto forte durante il periodo estivo – restituendo una fotografia genuina di come in tutto il mondo venisse discusso il topic, dalle ricette dove utilizzare questa qualità di frutto a dove potesse essere trovato e acquistato.

 

Una preziosa risorsa, andando al di là della frutta e verdura, quando ad essere discussi sono cambiamenti politici, catastrofi naturali o grandi eventi di portata mondiale, oltre che uscite sul mercato di nuovi prodotti e tendenze innovative: non per nulla, i primi ad essersi resi conto dell’importanza di dove andasse la “twittersfera” non sono stati solo gli scienziati, ma anche i ricercatori di marketing e gli operatori di settore.

Possiamo cominciare a parlare di una coscienza globale, o intelligenza collettiva, partendo dall’organizzazione dei contenuti? Un dibattito che si ripete ciclicamente alle grandi rivoluzioni culturali, dall’avvento della stampa alla nascita della TV: in questo caso, sembra proprio che la direzione sia quella.

Multibrand, crescono i ricavi nel 2010 il futuro sarà l’e-commerce

by pambianconews.com
 
Luisaviaroma

Nell’arco di due anni ben dieci boutique italiane hanno aperto il canale di vendite online, che continua a crescere a ritmi sostenuti. Per i retailer sarà questo a dare un forte impulso alle vendite in futuro perché, se di fronte ad un mercato nazionale che è a dir poco statico le aziende si buttano sull’internazionalizzazione, i negozi dal canto loro possono “internazionalizzare” solo aprendo una finestra sul mondo. Ecco che l’e-commerce dei multibrand di lusso, sulla scia del successo dell’antesignano Luisaviaroma, sta vivendo un vero e proprio boom, dimostrandosi una forte leva di crescita per tutti quei monomarca dotati di know-how per la gestione dei nuovi mezzi e risorse da investire per mettere a frutto, online, la loro capacità di ricerca e mix and match tra i brand emergenti e supernoti del panorama della moda internazionale. Nel frattempo nello scorso esercizio 2010, il nostro campione di multibrand ha registrato un moderato incremento del fatturato, del 5%, e un miglioramento dell’Ebitda.

È un mondo di luci e ombre quello delle boutique italiane di lusso. Di perduranti flessioni di vendite che si accompagnano a performance di crescita degne di nota, benché ancora lontane dai livelli pre-crisi. Quel che pesa più di tutto è l’incertezza economica con i continui segnali d’allarme dei mercati finanziari, che impediscono di fatto il ritorno alla normalità anche da parte di quella clientela che non ha di fatto sentito la morsa della recessione e che rappresenta il bacino privilegiato dei luxury multibrand. Ma se si scava più a fondo emerge un altro fattore di preoccupazione. Il consumatore ha subito una profonda trasformazione nell’arco di poco tempo. Gli amanti del lusso sono diventati più attenti al prezzo, preparati e soprattutto interattivi. Il servizio e i vari plus che un multibrand di qualità offre non sono più sufficienti per garantire sviluppo, perché la vera sfida è quella di sbarcare sul web. Siti accattivanti e una piattaforma e-commerce sono ormai un must non solo per le aziende, ma anche per i multibrand, che devono imparare in fretta a crearsi un “marchio” riconoscibile per farsi notare nel mare magnum della rete. E in questo quadro le principali boutique di lusso italiane hanno messo a segno un timido segno positivo delle vendite. Secondo l’analisi condotta da Pambianco Strategie di Impresa su 59 multibrand di lusso italiani, nel 2010 i ricavi sono aumentati del 5% raggiungendo quota € 596,1 milioni rispetto ai 568 del 2009. Il bouquet di negozi selezionati ha realizzato un Ebitda del 5% pari a € 29,8 milioni, in crescita di un punto rispetto al precedente esercizio fiscale.

I TOP FIVE IN POSITIVO GRAZIE AI TURISTI

Ma vediamo più nel dettaglio la classifica per dimensione. Tre retailer su cinque che guidano la classifica hanno realizzato crescite del fatturato di oltre il 20% mentre solo un multibrand, Davide Cenci, ha segno meno. In cima alla classifica, escludendo Luisaviaroma i cui ricavi, come spiegheremo più avanti, provengono ormai per la quasi totalità dal suo canale e-commerce, si piazza Folli Follie. Dopo aver chiuso l’annus horribilis 2009 con una tenuta del fatturato, il retailer di lusso fondato nel 1970 da Giuseppe e Lucia Galli ha accelerato nel 2010 la crescita con un +26,8% sfiorando 25 milioni di euro. “La donna continua ad acquistare più dell’uomo”, ha sottolineato Marzio Torcianti, managing director di Coltorti, sei boutique nelle Marche cui si aggiunge quella oltreoceano di Miami e al secondo posto nella classifica per fatturato. Il 2010 per Coltorti ha regalato più di qualche soddisfazione dato che i ricavi sono aumentati del 22% raggiungendo i 23 milioni, il che significa in poche parole il ritorno ai livelli del 2008. “Nel 2010 abbiamo azzardato qualche acquisto in più, abbiamo puntato sui brand nuovi e nel complesso – ha spiegato Torcianti – ci è andata piuttosto bene. Certo, non si tratta di una novità. Da tempo abbiamo deciso di allontanarci dalla tradizionale idea della boutique, per entrare in un segmento più fashion che definirei lusso metropolitano. Per far trovare al cliente quello che può scovare nei negozi delle città top al mondo. Stiamo raccogliendo i frutti, ma è difficile prevedere se replicheremo anche quest’anno la performance, per via della flessione generale delle vendite di quest’autunno”. Beppe Angiolini, titolare della boutique Sugar di Arezzo nonché presidente della Camera dei buyer, ha sottolineato il ritorno all’acquisto griffato, come fosse quasi un bene rifugio. Nella classifica per fatturato Sugar è salito al quinto posto grazie a un balzo in avanti del fatturato del 29% che ha permesso al retailer di arrivare a quota 19 milioni di euro alle spalle di Davide Cenci (ricavi a 21 milioni, -10%) e San Carlo dal 1973 (+6,5% le vendite a 21 milioni). “Tutto merito dei turisti – ha detto Beppe Angiolini – che sono tornati a visitare la città e ci hanno tolto qualche preoccupazione. A parte tutto, il 2010 è stato un anno positivo, ma non facile. Il risultato è frutto di un enorme lavoro per rinnovarsi e per adattarsi al cliente che nel frattempo è cambiato. È molto più attento al prezzo anche nella fascia luxury in cui operiamo noi. Allo stesso tempo difficilmente si lascia conquistare da brand che non siano status symbol. Soprattutto negli accessori l’acquisto è per il 95% orientato sui prodotti delle griffe ben conosciute. Il prodotto diventa un investimento – ha aggiunto – ed è un atteggiamento che in molti casi si estende anche all’abbigliamento”. Una valutazione che trova d’accordo Giuseppe Giglio della boutique Giglio di Palermo (19,3 milioni di ricavi nel 2010 in crescita del 9,1% considerando le due società Giglio Spa e Giglio.com Srl), che ha aggiunto “il lusso è l’area meno toccata dalla crisi, ma il problema non è l’erosione del potere di spesa, piuttosto la fiducia in generale e proprio su questo noi retailer dobbiamo lavorare”.

GLI ACCESSORI SPICCANO IL VOLO

Per le boutique di lusso quindi c’è forse meno spazio rispetto al passato per una ricerca a 360 gradi dei nuovi nomi della moda. E d’altra parte l’altro aspetto, non di secondo piano, è il rallentamento dell’abbigliamento rispetto al costante exploit degli accessori che siano calzature o pelletteria. “I tempi non sono dei più semplici e occorre anticipare le tendenze del mercato”, ha commentato Tiziana Fausti che nel 2010 ha dovuto far fronte a un calo delle vendite del 16% fermandosi a quota 16 milioni. “Per questo due anni fa abbiamo deciso di aprire una boutique ad hoc per gli accessori che continua ad ottenere ottime performance. In questa fase i clienti preferiscono orientarsi su scarpe e borse, acquisti più semplici e d’impulso rispetto agli abiti”. Una scelta, quella di puntare sugli accessori, che accomuna anche altri retailer. È il caso di Al Duca d’Aosta, sei punti vendita nel triveneto e un giro d’affari di 18 milioni (-0,6%). “Nonostante la nostra storia sia legata al menswear, da tempo abbiamo introdotto anche la linea donna – ha spiegato Cristiano Ceccato, responsabile acquisti donna – ora è proprio questa a registrare una crescita delle vendite dell’ordine del 10% circa. Ma una buona fetta di questo incremento è legato all’accessorio, l’abbigliamento è ormai decisamente in calo”. “Per quanto concerne la donna, restano premianti la ricerca in primo luogo e il brand – ha aggiunto Rosy Biffi, titolare delle boutique Biffi e Banner, che ha chiuso il 2010 in sostanziale parità sull’anno precedente a 13,7 milioni. “Per l’uomo invece, accanto all’abito di rappresentanza si sta affermando un casual raffinato, ricercato e ripulito da quel che è streetwear”. Nonostante i segnali positivi che arrivano dalla donna e dagli accessori è difficile per gli imprenditori tirare le somme di quest’anno in corso. “È un continuo saliscendi – ci ha confidato Giorgio Molteni, titolare della boutique comasca Tessabit (14 milioni di ricavi nel 2010, stabili rispetto al 2009) – siamo partiti bene, ma l’attuale situazione di stallo politico ed economico non fa sperare in nulla di buono. In più abbiamo dovuto far fronte a un settembre dal clima quasi estivo che ha rallentato le vendite. E si sa che quando si perde un mese è ben difficile recuperarlo alla fine dell’anno”. Opinione condivisa anche da Luca Crugnola, general manager di Base Blu, il negozio top di Varese guidato da Flavia Brogini Magnoli che nel 2010 ha registrato 16 milioni di ricavi e una brillante crescita del 39%. “Quest’anno abbiamo aperto un importante monomarca Gucci in franchising ed uno shop in shop Dior, primo in Italia, annettendo altri 60 m² alla nostra boutique donna di mille m². Sono investimenti importanti che stiamo portando avanti per rendere attrattivo il nostro negozio e indirettamente il centro storico di Varese, aperto a una clientela internazionale. Comunque sia nel 2011 sarà dura replicare i tassi di crescita dell’anno prima”.

CAMBIA LA TOP FIVE PER REDDITIVITA’

Il 2010 è stato un anno in cui in generale i retailer sono stati molto più attenti che in passato ai costi. E i frutti di questo lavoro si sono visti a livello di redditività (Ebitda), che in generale è migliorata di un punto percentuale rispetto al 2009. Al primo posto si piazza Davide Cenci che, pur scontando un calo dei ricavi (-10% come già scritto) ha però ulteriormente migliorato la redditività, con un Ebitda che è passato dal già ottimo 12,8% del 2009 al 16,4% dell’anno successivo. Ottima performance anche per Franz Kraler, il multibrand con insegne a Dobbiaco e Cortina, che ha chiuso il 2010 con una crescita dei ricavi del 15% a quasi 5 milioni, con un Ebitda che ha raggiunto il 13,5% del fatturato rispetto al 10,9% registrato nel 2009. “Non lo nascondo, siamo contenti dei risultati ottenuti – ha commentato la titolare Daniela Kraler – continuiamo a beneficiare della nostra posizione strategica. Sia il nostro punto vendita di Dobbiaco che ancor di più quello di Cortina, si trovano in contesti di confine e attirano molta clientela da Austria, Germania e Svizzera. Turisti che, essendo in vacanza, sono forse più invogliati all’acquisto”. Medaglia di bronzo per Cortecci con l’11,9% (era il 9% nel 2009), seguita da Dominique all’11,6% contro il 5,5% del 2009. Chiude la classifica San Carlo dal 1973, che nel 2010 rientra quindi nella top five per redditività. Nell’esercizio fiscale precedente l’Ebitda era a quota 2,7% sul fatturato, ma appena un anno più tardi il valore è notevolmente migliorato raggiungendo l’11,2%.

I MULTIBRAND DIVENTANO VIRTUALI

L’e-commerce farà decollare i conti della moda. Non solo – e questa è la novità – dei luxury brand da Giorgio Armani a Gucci e Prada, ma anche dei multibrand, che nel corso degli ultimi anni hanno voltato lo sguardo verso il pozzo magico di Internet aprendo il loro canale di acquisti online. Due sono i modelli, Yoox, ma soprattutto Luisaviaroma. “Marchetti (il fondatore di Yoox, ndr) fu il primo a capire le enormi potenzialità della rete”, ha sottolineato Beppe Angiolini. Undici anni dopo la sua nascita, Yoox è arrivato a quotarsi in Borsa e ha un giro d’affari di 214 milioni di euro di cui oltre 160 legati alla sua attività di multi-brand online. Fiutando la grande potenzialità della rete, nel 2004 una delle boutique per eccellenza di Firenze, Luisaviaroma, ha aperto il suo canale di e-commerce. Da allora la crescita non si è più arrestata tanto che nel 2010 il retailer ha totalizzato un giro d’affari di 31 milioni di euro, di cui l’e-commerce rappresenta oramai ‘80%, con il sito www.luisaviaroma.com che attrae 2,5 milioni di visitatori ogni mese. La gran parte degli ordini provengono dall’estero e in particolare da Usa, Germania, Hong Kong e Regno Unito. Ed è un trend in continua crescita tanto che per il 2011 Luisaviaroma conta di chiudere l’anno a 45 milioni di euro grazie all’ottimo andamento dell’online. Il caso della boutique fiorentina è emblematico perché è entrata nel segmento e-commerce nel momento giusto rafforzando la sua identità di brand. Ma il settore delle vendite in rete gode ancora di enormi potenzialità. Secondo gli ultimi dati elaborati da Altagamma, nel 2011 le vendite di beni di lusso in rete dovrebbero aumentare del 25%, e nel 2015 raggiungeranno gli 11 miliardi di euro. Vista la velocità con cui stanno nascendo i siti di e-commerce dei multibrand italiani (una decina di casi in due anni), una fetta di questi consumi, strategica perché valica i confini nazionali e garantisce un respiro ancora più internazionale ai negozi, potrebbe essere appannaggio dei multibrand italiani. Il giro d’affari dell’online sulle vendite complessive delle boutique è ancora minoritario perché l’e-shop è stato avviato da poco. Va poi detto che gli investimenti per l’avvio di una piattaforma di e-commerce possono eguagliare quelli per l’apertura di un negozio vero e proprio. “Abbiamo lanciato il progetto e-commerce meno di tre anni fa – ha raccontato Giuseppe Giglio della boutique Giglio di Palermo – e il ritmo di crescita ci ha sbalorditi. Ora l’online rappresenta un fatturato di circa 3 milioni, pari al 15% dei nostri ricavi totali. È una quota ancora piccola, ma bisogna considerare che la boutique ha alle spalle una storia di settant’anni mentre il sito si è sviluppato in breve tempo”. Solo per dare un’idea del tipo di business, la piattaforma software Giglio.com è stata realizzata internamente e lo staff oggi si compone di 35 persone. Nel primo quadrimestre del 2011 i visitatori sono aumentati del 218% per un totale di oltre 1,7 milioni di utenti unici da 191 nazioni, che hanno visualizzato più di venti milioni di pagine. Al Duca d’Aosta, sei boutique nelle principali città venete, il salto sull’online l’ha lanciato a marzo del 2010. “Ci stiamo ancora affacciando al grande pubblico – ha affermato Cristiano Ceccato – ma la crescita è veramente notevole, soprattutto per la donna. Ogni cinque acquisti, quattro riguardano il womenswear e uno il menswear. E giusto per dare un’idea del giro d’affari, nel mese di settembre il canale online ha superato il fatturato di due nostri negozi”. Quella che si muove tra i click dei multibrand store online è soprattutto una clientela internazionale. “Soprattutto clienti nuovi – ha aggiunto Ceccato – che hanno approcci diversi da quelli tradizionali che potremmo definire off-line. Ma scelgono il multibrand online per gli stessi motivi che spingono i clienti ad entrare in negozio. Per il servizio. Noi non vendiamo solo un prodotto, vendiamo la capacità di ascoltare il cliente. Certo, su internet è diverso ma, per esempio, proponiamo sempre gli abbinamenti, spieghiamo cosa c’è dietro al capo”. Un anno fa anche Tiziana Fausti ha aperto il suo sito di e-commerce. “Per aprirci ancora di più verso il mondo – ha spiegato l’imprenditrice – e i risultati non sono mancati. Arriveremo a raggiungere il 50% dei ricavi totali con l’online ma stiamo parlando di strategie a lungo termine”. Sulla stessa scia anche Vinicio Ravagnani, titolare della boutique Vinicio di Legnano che otto mesi fa ha inaugurato il canale di vendite online. “L’abbiamo fatto soprattutto per dare un’impronta forte alla comunicazione, per modernizzarci, più che per incrementare sensibilmente le vendite. Certo, in un secondo momento mi auguro che l’e-commerce diventi anche una fonte importante di ricavi”. Se molti player hanno deciso di inaugurare la piattaforma online strutturandosi da soli, altri si sono affidati a società specializzate nell’e-commerce. È il caso di Tessabit, Penelope e Spinnaker per citare i nomi più conosciuti che hanno aperto la loro boutique virtuale insieme a FarFetch.com. Nato da un’idea di José Neves, FarFetch è una sorta di aggregatore che raccoglie in un’unica homepage le vetrine virtuali di numerose boutique di tutto il mondo e gestisce l’intera attività e-commerce dei multibrand presenti. Cosa che, per i singoli negozi, significa non dover sostenere i costi di attivazione di un sito e presentare la collezione insieme ad altri multibrand internazionali con il risultato di attrarre il cliente straniero all’acquisto presso un negozio fino a pochi momenti fa per lui sconosciuto. Per il momento sono 18 le boutique in Italia che si appoggiano a questa piattaforma (soprattutto negozi di tendenza) ma da Londra fanno sapere che stanno già lavorando per aumentare il numero delle vetrine italiane.

Facebook likes fashion!

By pambianconews
 

Che Facebook stia diventando sempre più centrale nelle strategie online dei brand della moda e lusso è un fatto oramai assodato. Non a caso, le aziende stanno reclutando milioni e milioni di utenti sulle proprie fan page. Ma quali meccanismi mettono in atto per indurre le persone a cliccare sul fatidico “mi piace”? E quanto è efficace realmente la pubblicità sul social network?

Possiamo considerare Facebook come il nuovo campo di battaglia in cui le aziende si confrontano a colpi di milioni di fans? Forse sì, vista l’enfasi con cui alcuni brand annunciano il raggiungimento di nuovi record di fans sulla propria pagina del social network. E in questi comunicati non si parla di migliaia, ma di milioni di adepti! Proprio per questo abbiamo deciso di stilare la graduatoria dei 50 brand internazionali di moda e lusso con il maggior numero di iscritti su Facebook. Ebbene, Converse All Star, che guida la classifica, vanta quasi 21 milioni di fans. A seguire un altro brand americano, Victoria’s Secret, con 15 milioni e mezzo di aficionados e in terza posizione il primo europeo, Adidas Originals con oltre 11 milioni. E gli italiani? il primo è Gucci in 13° posizione, con i suoi 5 milioni e mezzo di addicted, seguito da Dolce & Gabbana, in 19° posizione, cliccato da oltre 3 milioni e 300mila fans, e da Armani in 28° posizione. A seguire poi Diesel, Benetton e Versace. A livello di nazionalità la parte del leone è ovviamente giocata dai brand americani che con 22 marchi rappresentano più del 40% del campione. A seguire, e questo è un dato importante, l’Italia con 6 brand in classifica a pari merito con la Francia. Ma come hanno fatto queste aziende a raggiungere un così elevato numero di adesioni alla propria pagina istituzionale? Hanno lavorato e investito in una “campagna acquisti” o il famoso “like” per iscriversi alla fan page è stato un “clic” totalmente spontaneo da parte degli utenti? E quanto è utile fare pubblicità sul social media per aumentare il numero dei fans? Cominciamo col dire che, secondo una ricerca Cuoa, più di 8 persone su 10 che navigano su Facebook sono fan di almeno un’azienda, organizzazione o personaggio pubblico, anzi il favore è accordato per lo più ad aziende (68%). Il passaparola è la prima ragione di diffusione di una fan page (75%), ed esplorando i motivi che spingono gli utenti a iscriversi, troviamo al primo posto interessi personali e hobby (73%). Non mancano i fans che smettono di seguire una pagina e le prime tre ragioni sono: il numero eccessivo di messaggi (65%), messaggi troppo/solo pubblicitari (50%), lo stesso messaggio ripetuto troppe volte (41%). Inoltre, in base agli ultimi dati del think tank americano sulla digital innovation L2, le pagine aziendali su Facebook nell’ultimo anno sono cresciute con una media del 256%, con 2.271 nuovi fans al giorno! E’ un dato che dimostra una crescita esponenziale. A cosa è dovuto questo trend? ” Diciamo che ciò che avviene su Facebook non è molto diverso da quello che accade nella vita reale” afferma Luca Colombo, country manager Italia di Facebook, e aggiunge: “È compito delle aziende ingaggiare e mantenere le relazioni con i consumatori, alcune lo fanno meglio accendendo “la fiammella”, dato che Facebook è lo strumento ideale per generare passaparola”. Per fare un esempio, sulla bacheca personale viene riportato quando si diventa fan di un gruppo, così come ogni commento sulla fan page e ogni “like” viene pubblicato sul profilo, incentivando quindi gli amici a curiosare e a diventare anch’essi fan. “Oppure – continua Colombo – in una campagna pubblicitaria su Facebook, attraverso le Sponsored Stories, un’azienda può scegliere di includere nel formato adv il “like” dei contatti, così l’utente vedendo che è segnalato un amico è incentivato a visitare la fan page del brand e magari a diventarne fan”. Giuliano Palombo, CEO dell’agenzia di comunicazione integrata Dm3-Digital Media, aggiunge: “La chiave per aumentare il numero di fans è la viralità. Si chiede cioè all’utente di condividere alcuni contenuti, tra cui anche l’esperienza di iscrizione. Alcune aziende lanciano concorsi dove chi è già fan deve cercare altre persone che votino la sua foto o un suo contenuto, facendoli iscrivere alla pagina. E’ chiaro che aiuta anche la awareness del brand, nonché le convergenze con l’off line: ad esempio, dopo l’acquisto sul punto vendita, si può invitare il cliente ad iscriversi sulla pagina del brand su Facebook per avere accesso a promozioni particolari”.

PUNTO PRIMO: I CONTENUTI

Dando per assodato che la moltiplicazione dei fans si ottiene principalmente attraverso un meccanismo di viralità (anche se vedremo più avanti che la pubblicità gioca un suo ruolo), è chiaro che i contenuti sono il capitale su cui l’azienda deve investire, affinché siano interessanti, e quindi virali. Non è un caso che Burberry, che attualmente ha oltre 9 milioni di iscritti, dal momento della creazione della fan page ha impiegato un anno per raggiungere 1 milione di fans, 6 mesi per raddoppiare la cifra e 4 settimane per superare il traguardo dei 3 milioni. Il motivo di questa accelerata sono i contenuti. I post di Burberry infatti non si limitano alla presentazione della collezione e ai video dei backstage pubblicitari, come fanno in molti, ma pubblicano in esclusiva video musicali di nuovi talenti, e lanciano filmati dove Christopher Bailey parla in prima persona, rispondendo alle domande avanzate dai fans su Facebook e citando anche il loro nome. E’ un modo per dare un volto al brand e avvicinare la griffe agli utenti. Un’altra iniziativa efficace è stata creata in occasione del lancio del profumo Burberry Body: se diventavi fan del brand potevi scaricare un’applicazione e ricevere in anteprima e in esclusiva un campione di profumo. Dicono dall’azienda che, in poco più di una settimana, sono stati richiesti oltre 225mila campioni. Un’iniziativa che, secondo quanto riportato dal sito twentyfoursocial.com, avrebbe portato un aumento del 40% delle iscrizioni sulla fan page di Burberry. Levi’s ha addirittura lanciato lo spot da 60 secondi “Levi’s® Legacy” prima su Facebook che sugli schermi televisivi e cinematografici di tutto il mondo. “L’obiettivo – commenta Luca Bacherotti, acting general manager Levi Strauss Italia – era attingere al potere della comunità globale on line per stimolare il cambiamento e creare azioni positive, senza le restrizioni delle comuni barriere geografiche. Abbiamo ospitato sulla pagina di Facebook i “pionieri” impegnati nelle aree più diverse, e invitato i fans a dare visibilità alle persone che agiscono per il cambiamento. Tra loro ricordiamo le organizzazioni Water.org, fondata da Matt Damon e Gary White, Thanga.org, e il gruppo musicale Swarathma, impegnato nel sociale”. Zara, passando ad un altro big, consente invece, attraverso un’applicazione sulla sua fan page, di creare un look con due capi del brand e uploadare la foto: quelle vincenti saranno pubblicate e riceveranno 300 euro. “Indubbiamente le applicazioni sono molto utili per trovare nuovi fans” osserva Umberto Lisiero, senior account manager di ebuzzing, concessionaria per la pianificazione di campagne di passaparola online, e aggiunge: “Quando si tratta di giochi ad esempio, nella bacheca personale viene pubblicato anche il punteggio del gioco e così si innesca la sfida con gli amici del fan. In base alla nostra esperienza, un’applicazione può portare mediamente 10mila nuovi fans, ma questi possono essere anche molti di più, a seconda della awareness del brand e di altre variabili. Un altro modo per attrarre iscritti sono le tattiche “teaser”: alcune pagine aziendali propongono una versione “grigia” dove i contenuti si intravedono, ma solo cliccando su “mi piace” diventano accessibili. E’ un modo per creare desiderio, è una sorta di preview. Importanti anche i contenuti esclusivi da commentare e condividere in tempo reale, come le sfilate in streaming aperte solo ad un gruppo ristretto”. Da Zara fanno sapere che la gran parte degli iscritti alla fan page sono spontanei, probabilmente attirati dalla forza del brand. “I primi a creare su Facebook un profilo di Zara sono stati, anni fa, i consumatori, in modo spontaneo, il marchio decise dopo di creare una pagina ufficiale, quando contava già 900.000 followers. In questo momento Zara ha più di dieci milioni di fans, cifra che supera i 16 milioni se si contano i followers di tutti gli altri marchi del Gruppo Inditex”. Dall’azienda aggiungono che non investono assolutamente in pubblicità on-line per incrementare il numero degli iscritti, e lo stesso dicono altri marchi di moda, come Louis Vuitton: “Puntiamo tutto sui contenuti: siamo stati i primi a trasmettere le sfilate in diretta streaming su Facebook, e realizziamo video esclusivamente per questo social network, cioè vengono prodotti e tagliati in modo nuovo, con una regia accattivante, un editing più veloce, un montaggio più serrato. E i contenuti sono aggiornati più di una volta al giorno”.

PUBBLICITÀ: I PRO E I CONTRO

Ma allora è il caso di investire nei cosiddetti “messaggi sponsorizzati” che sono posizionati a destra nella pagina del profilo personale e della bacheca di Facebook? La domanda è lecita perché se Zara dichiara di non aver mai fatto pubblicità e ha raccolto oltre 10 milioni di fans, qualche dubbio sorge. Diciamo che su Facebook l’advertising ha caratteristiche proprie, non assimilabili agli altri social network: “La targettizzazione è ciò che fa la differenza – spiega ancora Luca Colombo di Facebook Italia – in quanto su Facebook è possibile fare profilazioni molto accurate, in base all’età, alla zona geografica, agli interessi, alle pagine visitate nell’ultimo mese o anno, basandosi sulle informazioni che gli utenti hanno scelto di condividere. Questo è possibile grazie alla vasta audience del social network: 800 milioni di utenti nel mondo accedono alla piattaforma almeno una volta al mese; in Italia sono 21 milioni, di cui 13 milioni si collegano ogni giorno”. “Noi – afferma Pietro Schira, direttore marketing Puma – abbiamo fatto pubblicità su Facebook per le linee lifestyle, calcio e running. Trovo che sia efficace, anche se il 90% dei nostri fans sono spontanei. Diciamo che l’advertising è utile se con un messaggio si vuole raggiungere un target ben preciso di consumatori, e soprattutto se il contenuto è intrigante, perché deve invogliare la persona a cliccarci sopra. La caratteristica dell’advertising sui social è propria questa: un’attenzione maggiore al contenuto”. Ma quanto costano? “I costi possono essere molto bassi – aggiunge Colombo – e variano a seconda del livello di profilazione e degli obiettivi della campagna, che può basarsi sul costo per impression o sul costo per click. E’ chiaro che il costo per click è più orientato alla performance, ad esempio a generare traffico su un sito o su una pagina, mentre il costo per impression segue una logica di awareness, di visibilità”. Il costo per impression dovrebbe andare da 2 euro per 1.000 visualizzazioni in sù, ma le variabili sono talmente tante che un’azienda può investire da poche migliaia di euro a centinaia di migliaia. Diciamo che l’advertising potrebbe avere l’effetto di un boost, cioè di velocizzare i tempi. In effetti l’accelerazione del numero dei fans nell’ultimo anno fa pensare che molte aziende abbiano spinto sul pedale della pubblicità, anche perché i dati di una ricerca di Efficient Frontier, società inglese di marketing online, hanno rilevato un aumento significativo del costo per click su Facebook: nel terzo trimestre 2011 il costo è cresciuto del 54%, mentre l’investimento delle aziende è avanzato del 25%. Non mancano comunque perplessità, come sottolinea Palombo di Dm3: “Facebook al momento attuale mantiene un enorme potenziale, e la sezione advertising non è ancora così matura, perché le persone sono restie a cliccare, a meno che non siano particolarmente appassionate di quel prodotto e abbiano il tempo da dedicare all’operazione. A mio parere, il ritorno della pubblicità su Facebook è piuttosto basso, cioè l’advertising va bene per aumentare la visibilità, ma non per incrementare il numero degli iscritti”.

UTENTI ATTIVI E PASSIVI

Avere milioni di fans però non significa che queste persone leggano i post, visitino la pagina, curiosino tra i contenuti. Potrebbero mettere un “like” una sola volta e non ritornarvi mai più. “Bisogna tener presente – afferma Luca Colombo – che la crescita dei fans non è l’unico parametro da considerare per misurare l’efficacia di una strategia su Facebook. L’azienda dovrebbe stimolare la partecipazione degli utenti, incentivandoli a commentare, postare contenuti, condividere video. Il nuovo strumento di Facebook che indica il numero di conversazioni in corso su un brand, va proprio incontro a questa esigenza”. A proposito di quest’ultimo numero, che è posizionato sotto il numero dei fans, è curioso notare come Converse All Star, con quasi 21 milioni di iscritti, abbia poco più di 73mila persone che parlano del brand, mentre Levi’s con “solo” 8 milioni di fans conta più di 116mila persone che parlano del marchio! “La vera sfida – sottolinea Umberto Lisiero di ebuzzing – non è aumentare il numero dei fans, ma far crescere il rapporto, la relazione. L’elemento importante è l’”interaction rate”. Chiediamoci: quanti di questi iscritti interagiscono con il brand? Perché il rischio è che, se mancano contenuti innovativi e aggiornati, le persone smettano di essere fan. L’azienda non deve pensare a Facebook come all’ennesimo canale di comunicazione, dove avere visibilità e parlare di sé, ma come a un vero e proprio territorio di relazione”.

PAGINA GLOBALE O LOCALE?

Un altro elemento strategico per la fan page aziendale è la struttura della pagina: meglio un’unica globale o più declinazioni locali? “Dipende dalla struttura interna dell’azienda “risponde Pietro Schira di Puma, e aggiunge: “A monte però va definito bene l’approccio: oggi bisogna considerare Facebook non più come un elemento accessorio del marketing mix, ma come un elemento chiave, è un media in se stesso. Per cui, quando si progetta una campagna, bisogna pensare a priori che andrà in televisione, negli store e anche su Facebook: cioè il messaggio non andrà riadattato sul social network in un secondo momento, ma già in fase di progettazione bisogna tenere presente quella che sarà la declinazione su Facebook. Questo è il punto di partenza per il giusto approccio. La forza di Facebook è che consente un contatto quasi personale con il consumatore, da amico, e al contempo si raggiungono milioni di persone. Questo non è possibile con la tv o la stampa. Detto questo, se la struttura di marketing dell’azienda è organizzata per regioni geografiche, penso che sia meglio avere una pagina globale dove l’head quarter dà le direttive, ma anche un’attività di stimolo gestita localmente per integrare i contenuti. E’ quello che facciamo con la fan page di Puma, dove ai temi globali aggiungiamo contenuti addizionali creando un legame con i cittadini di una particolare area geografica. Probabilmente entro fine anno avremo la fan page tradotta integralmente in italiano”. Bisogna dire che, tra le aziende internazionali della moda è difficile trovare realtà che abbiano pagine locali su Facebook, mentre nel settore della cosmetica, ad esempio, troviamo fan page come L’Oréal Paris Italia e Sephora Italia. E spostandoci in tutt’altro settore, che dire di Walmart, colosso americano della distribuzione che ha deciso di creare 3500 pagine su Facebook, una per ogni punto vendita negli Stati Uniti e gestita ognuna dal singolo supermercato? Senza arrivare a tali livelli di “localizzazione”, è chiaro che la vicinanza al consumatore consente comunicazioni e relazioni più efficaci. Secondo una ricerca di Syncapse pubblicata dal sito americano Ad Age Digital, le pagine locali su Facebook fanno crescere del 36% l’engagement rispetto a quelle globali. Sono più utili quindi in termini di partecipazione, relazione, creazione di feedback. “E’ vero però che, a livello di branding, una pagina globale con milioni e milioni di fans ha una sua efficacia! Semmai bisogna dare nuove opportunità agli utenti del social network, a livello locale” afferma Marcello De Luca, cofounder di Hypenlab.com, società di New York che crea piattaforme interattive per boutique di lusso su Facebook, ma anche su altri canali (email, Twitter, mobile). E aggiunge: “Con il nostro software offriamo a ogni negozio il proprio sito personale, dove il retailer invita i clienti in forma esclusiva. Qui i consumatori potranno visionare contenuti creati ad hoc, essere informati su eventi, nuovi arrivi, ecc, ma soprattutto verranno dati ai clienti gli strumenti per interagire con gli amici di Facebook e invitarli al sito. Siamo attivi su più Paesi e dal primo gennaio 2012 serviremo anche alcune boutique di via Montenapoleone a Milano, che grazie a noi si doteranno di un loro sito specifico per dialogare con i consumatori”.